Spectres from the Old World, Black Fortress: recensione

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Spectres from the Old World è il nuovo album dei leggendari Black Fortress, divinità della morente scena black metal in uscita il 28 febbraio per Century Media.

Per ragioni a me del tutto oscure, i black metal continua ad avere una vasta pletora di ascoltatori – tanto da far sussistere una nutrita scen internazionale, che include numerosi festival, etichette dedicate, musicisti ancora borchie e cerone bianco.

Chiaramente, c’è un certo alone paludoso di fuochi fatui nell’atmosfera della scena: eccezione non fanno i Dark Fortress, il cui nome fa già il verso a quello (in lingua oscura di Mordor e mezzo islandese) dei ben più blasonati Dimmu Borgir, rispetto i quali, però, è sempre mancato il guizzo d’eleganza.

Ecco, dopo il passabilissimo Venereal Dawn (ma cosa intendevano? Le malattie veneree che ti scopri all’alba dopo una nottata di bagordi?), che arriva, a ben sei anni di distanza, Spectres from the Old World. Per la formazione di Morean (eh, lo sapete ormai: nessuno nel black metal usa il suo nome) e Santura (chitarrista e principale autore) si tratta del settimo LP “classico”, più un demo e uno split. E, come marchio di fabbrica, anche qui ci aggiriamo sull’ora di ascolto complessiva.

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L’intro è atmosferica, pregevole: non vedo correlazione col titolo, ma del resto siamo solo all’inizio. Si prosegue con Coalescence che, per chi non lo sapesse, è il fenomeno di fusione delle bolle nell’acqua bollente – brano aggressivo, forse forzato nell’utilizzo eccessivo della doppia cassa ed un bridge che sfocia in un heavy metal improvviso ed un po’ fuori luogo che lascia leggermente sbigottiti. Si prosegue con The Spider in the Web, decisamente più cattiva e oscura, dalle atmosfere Shelobiane che, complice anche una curatissima sezione ritmica ed un refrain travolgente, alza l’asticella della classe espressa in Spectres From the Old World.

La title track travolge, poi, e distrugge come uno tsunami qualunque buona intenzione d’eleganza nell’album dei Dark Fortress perché, senza una logica alcuna, riporta in auge gli stilemi del black metal i Nargaroth (prodotto meglio) e del pogo da ubriachi in locali surriscaldati. Black metal ist krieg!

Pare che i nostri abbiano scelto il Cile per lasciarsi ispirare nella composizione dell’album: una terra misteriosa, quella del deserto d’Atacama; antica, scofinata, madre di una delle più misteriose civilizzazioni che mummificano i propri morti – i Chinchorro. Per non parlare, poi, delle intricatissime linee di Nazca e delle infinite teorie del complotto che hanno ruotato attorno ai geoglifi. Ecco, il Cile viene brutalmente introdotto in Spectres from the Old World con Pali Aike, brano fortemente improntato alla melodia e ricchissimo di orchestrazioni pregevolissime; solita nota stonata, degli assoli di chitarra decisamente retrò e fuori luogo, che erano presenti anche nel predecessore Venereal Dawn. Ma perché?

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Continua il viaggio desolante con Pazuzu, antica divinità babilonese (appartenente a quel pantheon abbondantamente sfruttato dai Tiamat), forse il miglior brano di Spectres from the Old World finora. Pazuzu – una sorta di Czernobog mesopotamico – era un demone dell’aria particolarmente potente e maligno, nonché il demone del cult L’Esorcista. Ecco, il brano in sé è complesso, di difficile interpretazione – ma scorre meravigliosamente in fiumi neri di cattiveria ed è decisamente catartico; come le preghiere e gli incantesimi che gli antichi abitanti dell’Iraq rivolgevano alla divinità estinta. Dall’universo prima del nostro, cui solo Galactus è sopravvissuto, con lui è rimasta anche Isa, settimo brano di Spectres from the Old World, che si configura come una lunga suite infernale che sorpassa le brutture sperimentali di Venereal Dawn e che dà la possibilità al batterista Seraph di esprimere al meglio il proprio potenziale. Ovviamente, anche qui gli assoli chitarristici non mancano, ma la sezione melodica sembra essere leggermente più in linea con quanto proposto e meno mal assortito. Dopo l’evitabilissima Pulling Threads, si prosegue con  In Deepest Time – che già stupisce per la perfezione del missaggio – e che evoca misteri di lotte angeliche, interpretate dalla voce pulita di Morean: vera e propria gemma dell’album. La triade finale, composta dall’interludio Penrose, dalla suite Swan song e dalla conclusiva Nox Irae, stupisce solo in Swan Song: brano progeggiante ed elegante, recupera quanto di bello seminato in In Deepest Time.

In conclusione, Spectres from the Old World si va ad inserire nel ristagnante panorama black metal odierno: neppure il ritorno dei Mayhem è riuscito a smuovere cotanta granitica nebbia.

Giulia Della Pelle
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