DSVII, M83: il fascino del vintage [Recensione]

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DSVII , uscito il 20 settembre 2019 per Naive, è l’ottavo album del progetto M83, del compositore francese Anthony Gonzelez, ed il proseguimento di Digital Shades Volume I, del 2007.

Ammettiamolo, i francesi – in qualcosina – sono più bravi di noi. Non nel vino, non nel cibo, non per il patrimonio artistico: ma nella musica elettronica. Sì, noi abbiamo Giorgio Moroder, ma loro hanno i Daft Punk, David Guetta, Bob Sinclair, e gli M83. Ah, e dimenticavo. Da noi c’è sì stato Hugo Pratt, ma i francesi hanno avuto Jean Giraud, aka Moebius, disegnatore e fumettista amato ed invidiato oltreoceano e considerato il fondatore del fumetto contemporaneo. Perché ve ne parlo? Perché quando si parla di musica francese non nominare l’arte fumettistica è impossibile, e a breve scoprirete perché.

Progetto elettronico del poliedrico Anthony Gonzalez, una sorta di genio polistrumentista (nonché cantante) che ha saputo destreggiarsi fra ambient, pop di qualità, e colonna sonora, che ha deciso, questa volta, di proseguire sulla scia di un lavoro del 2007, Digital Shades Volume I. Ecco da dove nasce DSVII: Digital Shades Volume II, una serie di outtake, di brevi tracce elettroniche – ma non per questo di bassa qualità. In controtendenza, come però hanno scelto ultimamente moltissimi compositori elettronici, Gonzalez ha scelto di affidarsi a strumentazioni esclusivamente analogiche. Come facevano i suoi maestri, quali l’anche regista John Carpenter.

Tutt’altro. Con DSVII ci troviamo di fronte all’ennesimo lavoro mastodontico, uscito il 20 settembre per la francese naive, anticipato da tre singoli, Temple of Sorrow, Lune De Fiel, e Feelings, che insieme concorrono a creare uno short-film per la regia di Bertrand Mandico.

Ma perché vi ho parlato di Moebius?

Guardiamo la cover. Un cavaliere in uno strano deserto rosa, di fronte ad una piramide, a cavallo di un dinosauro, ed una sorta di uccello granitico che gli svolazza accanto. E guardiamo questa tavola di Arzach, muto capolavoro di Moebius:

Si parte con la dolcezza – inquietante – di Hell Riders, un distante vocalizzo femminile su una base d’archi e chitarra acustica, che si perde in un accorato grido finale. I più attenti, però, si accorgeranno di alcune citazioni musicali: i più nerd, le coglieranno. Ed ecco che – già vi sento – canticchiate Song of the Storm di Legend of Zelda, che Gonzalez ha detto essere una sua fonte di ispirazione per DSVII, la cui soundtrack fu composta da Koji Kondo. Proseguiamo con a Bit of Sweetness, echi carpenteriani si fanno strada fra cori campionati e distorti e, di nuovo, un lieve arpeggio di chitarre che si richiamano l’un l’altra. Acqua che scorre dolce in sottofondo, synth eighties a là Wendy Carlos e antichi cabinati da sala gioco. Un’ode silenziosa alla dolcezza del mare dei ricordi.

Laddove, però, DSVII potrebbe sembrare un album minimal (quantomeno rispetto alle profusioni elettroniche di We Own the Sky, le collaborazioni con la paladina nordica dell’elettronica Susanne Sundfor, e i ritmi sincopati di classici come Midnight City), per le frequenti ispirazioni a Eliane Radigue, Einaudi), esso si avvicina più alle gioiose sperimentazioni di un mostro sacro come Raymond Scott. Per chi non lo sapesse, il signore in questione, classe ’08 (1908, eh), fu il compositore delle sigle di centinaia di cartoni animati come Bugs Bunny, Duffy Dack: i Looney Tones, insomma. Ed un ricercatore. Un vero ricercatore della musica. Senza di lui non avremmo avuto l’elettronica moderna. 

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Cover di Phantasy Star, il primo capitolo della saga della SEGA che ha fatto scuola fin dal 1987.

Ad ogni modo, tutto ciò per dire che anche la successiva traccia di DSVII, Goodbye Capitan Lee – trumpet malinconici su un soundscape di tubular bells su cui si innesta un malinconico cantato, ove pare di cogliere rimandi alla poetica di Ryuchi Sakamoto – è l’attualizzazione del lavoro di Scott, con i metodi sviluppati da Robert Moog ed altri ingegneri del suono.  Questo appare evidente anche nell’evocativa Colonies (ma si starà davvero parlando di Battlestar Galactica?), synth sporchi e intelaiature complesse ad instillare nell’ascoltatore il sentore di fernweh dell’esplorazione interstellare – pianeti mai toccati da mano umana, coperti di giungle infuocate, crateri enormi, astronavi grigie che atterrano smuovendo polvere leggera.

Il tocco fantasy viene aggiunto con Meeting of the Friends, che potrebbe tranquillamente essere il commento sonoro ad un intermezzo di dialoghi di Final Fantasy III o Phantasy Star (quanto era difficile giocarci senza sapere l’inglese a otto anni!). Un flauto sintetico – delicatissimo – dipinge un quadro dai contorni astratti, ma sicuramente dai toni caldi e rassicuranti. Lo stesso flauto ci travolge con grazia in Feelings, ultimo singolo uscito, con un’arpa distorta e pad atmosferici: qualche momento climax di un vecchio videogioco fortemente story-driven, quali appunto i Final Fantasy, The Legend of Zelda, o Dragonquest. L’ending jazz e solenne è un colpo al cuore, da gustare ad occhi chiuse, e cuffie alle orecchie: come un sacramento.

m83 dsvii recensione
Skyline della devastata Zanarkand, città del protagonista di Final Fantasy X, Tidus.

Il breve intermezzo silenzioso (e blueseggiante) dell’humming di a Word of Wisdom (il tipico consiglio del mentore sempre presente dei GDR) ci porta a Lune de Fiel, secondo singolo da DSVII. Eccola là, Wendy Carlos, direttamente dai film di Stanley Kubrick e Tron, con quei synth caratteristici, sincopati, un pianoforte sofferente proveniente dal futuro tramite un worm-hole. La musica classe dei notturni di Chopin e delle cavalcate di Bach e Wagner si fondono con la drum machine per uno dei brani più belli dell’album.

Nell’immaginario videogame vintage quale è DSVII, Jeux D’Infants è la To Zanarkand di Nobuo Wematsu ma secondo Anthony Gonzelez: piano malinconico e minimal, per un viaggio nei ricordi che mai più torneranno. Una sandbox, paletta e rastrello, uno scivolo impolverato sullo sfondo. Torna Wendy Carlos più oscura con A Taste of Dusk, perdendosi in un dream pop eighties e organistico, mentre Lunar Son esplora lidi siderali. La chill out Oh Yes, You’re there everyday  risulta invero dimenticabile.

Le battute di chiusura dell’album riservano spazio all’austerità cinematografica di Mirage, e alla tenerezza – in realtà già esplorata in DSVII – di Taifun Glory.

L’ultima fatica di Gonzalez si chiude con uno dei suoi brani più alti: la suite Temple of Sorrow, che è anche il primo capitolo del cortometraggio Extazus, di Bertrand Mandico, la cui prosecuzione è nei videoclip di Lune de Fiel e Feelings. L’analisi del corto meriterebbe un articolo a parte, e rimanendo dunque circoscritti alla musica, Temple of Sorrow è un brano in stile M83 che si discosta dal citazionismo dell’album, tornando ai fasti già sperimentati in Hurry Up, We are Dreaming: nulla che non fuoriesca da una confort zone musicale, ma perfettamente adatto allo sci-fi retrò presente in Extazus.

In conclusione, DSVII rimarca ciò che sapevamo già del progetto M83: qualità, qualità ad ogni costo. Anche quando essa si perde nel citazionismo, purchè tale citazionismo sia ben inserito in un contesto organico ed in vago concept, e purchè esso sia coerente. Siamo di fronte, dunque, all’ennesimo, solido, lavoro, di elettronica d’oltralpe.

Giulia Della Pelle
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