Daemon, Mayhem: recensione

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Daemon è il sesto album della storica band black metal dei Mayhem, che vanta una storia infinitamente travagliata. Anticipato da Worthless abomination destroyed, è in uscita il 25 ottobre per Century Media.

Ora, io non so l’età di voi lettori, ma se avete meno di trent’anni e amavate il metal, sicuramente, quando ancora eravate coperti di brufoli e borchie, avete sentito parlare del brutale omicidio di Euronymous.

Partiamo dalle origini. I Mayhem nacquero ad Oslo nei tardi anni ’80 sulla scia di Venom, Marduk e Celtic Frost, dandosi fantasiosi soprannomi: Euronymous, Manheim, Dead, Hellhammer. Nei loro concerti nei primi ’90 erano soliti lanciare teste di maiale e sangue di varia origine, parlare di morte e registrare malamente. Cosa che poi col tempo è cambiata, diventando effettivamente la punta di diamante del black metal, facendo di suoni puliti, ampie ed evocative orchestrazioni, il loro vessillo.

Ad ogni modo, nel 1991, Dead si uccise. La leggenda dice che i proiettili per il colpo fatale – dopo essersi tagliato le vene dei polsi – gliele abbia forniti il futuro Burzum, compositore a tratti geniale ma prevalentemente pazzo, al secolo Varg Vikernes. Che è da poco uscito da galera, dopo esservi stato per il motivo che a breve vi racconterò. Ad ogni modo, leggenda narra che Euronymous raccolse pezzi del cranio di Dead e ne regalò ai musicisti degni – non quelli vestiti di tute, cappellini, scarpette da ginnastica – compreso Burzum.

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Questa ce la ricordiamo tutti.

Nel frattempo, nel 1993, Vikernes era solito incendiare chiese, le tipiche stavkirke norvegesi, e la sua salute mentale iniziava a degenerare (negli anni ’00 decreterà di abbandonare il metal in quanto “musica da negroidi”). Non si seppe mai la verità, ma Burzum si recò a casa di Euronymous, il famigerato appartamento del suicidio, e lo ammazzò a coltellate. Il perché? Probabilmente Euronymous godeva di simpatie staliniste e comuniste, mentre Burzy non ha mai fatto mistero del suo amore per il nazismo e gli ideali proto-germanici. Non gli riuscì di portarlo nel bosco per torturarlo, e decise quindi di farlo fuori.

Gli anni successivi per i Mayhem furono altalenanti: vi fu uno scioglimento, la pubblicazione di Dawn of the Black Hearts, con la famigerata copertina che ritrae il corpo senza vita e cervellosulpavimentospappolato di Dead. Attualmente, della formazione originaria rimangono i soli Hellhammer ed il bassista Nechrobutcher. Costui ha peraltro recentemente rivelato un gustoso retroscena: pare che volesse vendicarsi delle foto post mortem (e pubblicate) scattate a Dead da Euronymous, e decise di farlo fuori. Fu però anticipato da Vikernes.

Dunque, questo nuovo album, Daemon, arriva dopo una storia estremamente travagliata ed un temporaneo abbandono dalle scene: Esoteric Warfare del 2014, e cinque anni di silenzio.

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E, di nuovo, partiamo da un assunto, maturato dopo numerosi ascolti di Daemon: è un album bellissimo. È colmo di cattiveria, ma è coeso, ed è un lavoro di squadra  – ed è, soprattutto, fruibile, nella grandiosa batteria di Hellhammer che si conferma, ancora, un gigantesco professionista. Il che fa già un po’ strano di per sé trattandosi di un album black metal: la bellezza delle orchestrazioni e l’eleganza della cattiveria (un po’ falsina, in questo specifico caso) si odono già dalla opening The Dying of the False King; la successiva Agenda Ignis parla, probabilmente, nella voce demoniaca di Attila, di diavoli ab inferi, fra accelerazioni di chitarra e esplosioni di cattiveria soprannaturale. Eventi più melodici risultano essere in Bad Blood, che recupera il suono industrial del precedente lavoro e lo fonde con quel De Mysteriis Dom Sathanas che li rese grandi; chitarre incattivite e pulite, su un rollio di tamburi dall’Ade.

Scavando nella biblioteca di Windows Media Player, sono entrata a contatto con due perle dei Mayhem: l’inpronunciabile Chainsaw Gutsfuck e la bellissima Freezing Moon. E di gelo si tratta in Malum – in cui probabilmente, fra le invocazioni in latino maccheronico da parte di Attila – ci troviamo nel Cocito, con Lucifero incastrato al suo centro, le sue ali da pipistrello a congelare i dannati. Ed uno dei migliori brani black metla di sempre.

Un po’ di noise da brividi, infernali gorgoglii gutturali di creature primigenee all’inferno stesso, introducono Falsified and Hated. Certo che l’ideale di Satanismo dei Mayhem è cambiato ben poco dagli anni ’90, ed è sempre più lontano dall’esistenzialismo nietzschiano di La Vey, che rigetta i valori del Cristianesimo di povertà, umiltà, e castità, proponendo una visione che mette l’orgoglio di essere vivi e nati al centro dell’esistenza spirituale – portando gioia e benessere a se stessi e agli altri (per la cronaca: Jack London, sì, lo scrittore di Martin Eden e Zanna Bianca, era un satanista ante-litteram).

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Hellhammer si porta bene i suoi anni.

Effettivamente, il satanismo dei Mayhem è sempre più di semplice facciata, qualche Bafometto (ciccione, come quello de Il Maestro e Margherita di Bulgakov) puzzolente di zolfo qua e là, roba totalmente rigettata dal Satanismo ufficiale, che fa un po’ paura, che nomina diavoli e creature lovecraftiane dalle profondità degli abissi, ma si limita ad incutere timore se non ci sperde nelle schitarrate e nelle inflessioni progeggianti e atmosferiche di Aeon Demonium – brano che molto deve agli ultimi Dimmu Borgir: che di cattivo non hanno proprio nulla. eppure, di bellezza in Aeon Demonium ce n’è tanta: c’è il terrore delle grandiosi visioni di orde di diavoli, come orchi di Mordor, che attraversano i neri cancelli dimensionali che separa la nostra realtà dalla loro, fatta di fumo e sofferenza. Il ritmo, rallentato a questo punto, viene di nuovo innalzato dal singolo – chitarre intrecciatissime e basso incattivito – di Worthless abomination. Brano che lascia effettivamente un po’ indifferenti se non per gli inni, di nuovo, in latino, a mo’ di messa nera.

Che ne pensate di un’orda di Uruk-hai al rallentatore? Eccovi serviti, qui, nel regno oscuro di Daemon, abominazioni nate dagli elfi più puri, che avanzano in slow motion calpestano l’erba verde, al ritmo dei tamburi di Hellhammer e delle intonazioni di Attila, delle cadenze dettate dalle chitarre di Ghoul; e l’erba si tinge di rosso, di morte prima di vita e poi morte di civiltà. La successiva chitarristica Of Worms and Ruins si trascina rapida senza lasciare traccia, ottima soundtrack per un intermezzo battagliero.

La finale maturazione dei Mayhem sopravvissuti, l’evoluzione del Satanasso norvegese, si ode in Invoke the Oath, lenta, maestosa, irta di spigoli – e un po’ sporca in un lo-fi vecchio stile che non sfigura – che recupera gli stilemi del vecchio black metal norvegese, condendolo però con una produzione iper-complessa ed una linea di basso abissale. Un ending strepitoso per un ottimo album.

Daemon rappresenta, dunque, la maturità artistica di una band – ormai un duo, ma che si è circondato di una lineup finalmente stabile – che ha fatto la storia. Per chi vuole del sano black metal e vuole evocazioni imperiose, diavoli rossicci e serpenteschi.

Giulia Della Pelle
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