Cantare il silenzio a Occidente. La Poesia di Mauro Macario

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Mauro Macario è un nome importante nel panorama italiano della poesia contemporanea. Poeta, saggista, scrittore, sono solo alcune delle “etichette” di un artista che ha saputo raccontare i cambiamenti del mondo, vivendo in funzione della sua arte ed essendo vissuto dalla stessa.

I versi di Mauro Macario sono un modello di poesia libera, ribelle, ma anche pacata, di una pacatezza violenta che ha l’obiettivo (neanche troppo velato) di scuotere e animare un tempo senza anima, come un costante continuo parto viscerale di istantanee non visibili, se non mediante il mezzo poetico.

È possibile rintracciare la firma di Mauro Macario già da poche combinazioni di parole, complici immagini nuove e toni dissimili a tutto ciò che è stato scritto; è la combinazione tra stile e tematiche a rivelare quest’autore come testimone degli ultimi anni, andando l’evoluzione del mondo di pari passo alla sua evoluzione come artista.

Ma facciamo un passo indietro.

L’affermazione di Mauro Macario come poeta passa da altri picchi in altre discipline.

Figlio dell’iconico comico Erminio Macario, la sua è una formazione teatrale (frequenterà giovanissimo la Scuola d’arte drammatica del Piccolo Teatro di Milano) e, prima di passare alla regia televisiva (dove lavorerà, negli anni ‘80, tra gli altri, al celebre programma “Il cappello sulle ventitré”), sarà aiuto-regista di Bruno Corbucci. Da lì il debutto alla regia cinematografica con il film “Perché si uccidono”.

L’incontro più importante della sua vita sarà quello col cantautore e poeta Léo Ferré, che gli diventerà amico e maestro.

La sua avventura poetica comincerà nel 1990 con il testo “Le ali della jena” (lubrina editore) che avrà la prefazione di Léo Ferré e si dispiegherà negli anni sino all’opera omnia del 2017, “La trame del disincanto” (puntoacapo editrice).

Mauro, buonasera. La poesia ai giorni nostri è sempre più un bene accantonato e agli occhi di molti, superfluo. A cosa pensi, per te che ormai da anni ti dedichi a questa arte, sia dovuto il suo declino? E quali risorse ha ancora da dare, la poesia, oggi?

La poesia non è mai stata un fenomeno popolare, a parte i remoti tempi arcaici. Ora assistiamo a un suo declino che mi pare irreversibile. Le ragioni sono plurime e conglobate assestano il colpo di grazia. E’ desolante constatare l’indifferenza degli organi statali preposti alla cultura verso un’arte letteraria -la poesia- che, insieme alla pittura antica, rappresenta l’identità italiana più profonda. La poesia non è alimentata né divulgata, la lasciano morire tra insegnamenti obsoleti che non si configurano nella realtà epocale, come fosse già un reperto da archiviare, una necropoli di interesse solo museale.

Mentre la poesia può e deve interpretare il proprio tempo storico, il presente. Allora i ragazzi potrebbero ascriverla a riferimento non astratto, ma tangibile e quotidiano. Gli insegnanti ignorano la poesia moderna e per tale intendo quella che invade il mondo dagli anni ’60, pregni di sogni,utopie,rivolte.Un’altra ragione è la sostituzione della parola con l’elemento visivo, tipico del Novecento : il cinema, e soprattutto la televisione. Quest’ultima condotta al fine programmatico di accelerare il degrado morale, etico, culturale di un intero popolo.

Inoltre la comunicazione tecnologica con la sua rapidità fotonica e lo stile asettico, disidratato della sintesi ha eliminato la riflessione e il gusto della ricerca formale. Aggiungiamo la regressione antropologica in atto dovuta al consumismo estremo e selvaggio dove vediamo l’oggetto sacralizzato e il soggetto annullato. Il culto della materia inerte ha scavalcato la cultura umanistica che agonizza e sopravvive in piccoli clan di grandi irriducibili. La regressione antropologica porta alla rarefazione della sensibilità percettiva senza la quale il congiungimento all’afflato poetico è impossibile.

Mi interessava anche sapere quali sono o sono stati i tuoi riferimenti, in ambito poetico e non solo, e in cosa essi abbiano influito nella tua arte e nella tua vita.

In me arte e vita si sono sempre interconnessi su un terreno comune. E’ inconcepibile vivere l’atto creativo al di fuori di questo abbraccio vitale e mortale. Ho avuto una vita artisticamente avventurosa, eclettica, sperimentale, attraversata da molteplici esperienze : scrivere per il teatro, il cinema, fare il regista in questi campi, e anche in televisione.

Ma la poesia è il vero appuntamento che ho avuto con me stesso e lì mi sono riconosciuto, in un’arte solitaria e non collettiva come il cinema e il teatro. I miei riferimenti in cinema sono stati Ingmar Bergman, Federico Fellini, Jean Luc Godard, Loius Malle, e tutta la “nouvelle vague” francese. In poesia, Baudelaire, Rimbaud, Pavese, Ginsberg, Bukowski, e Leo Ferré. E tutti i cantautori “storici”.

Due nomi: Erminio Macario e Lèo Ferrè. Cosa rappresentano per te questi giganti, dal lato artistico e da quello umano?

Certo, Ferré e Macario, mio padre, sono per me figure indimenticabili e fondamentali. Li rimpiango ogni giorno. Dico sempre che ho avuto due padri : Ferré il padre onirico, Macario, il padre biologico. Entrambi sono padri del mio cuore. Ferré è un genio del Novecento che ha riportato la poesia arcaica legata alla musica riproponendola in chiave contemporanea e inventando una nuova disciplina : la poesia in musica. Definirlo solo cantautore è riduttivo.

Ho vissuto con lui dieci anni d’amicizia intensa e devota segnata da continue illuminazioni e rivelazioni. E fu lui a spingermi a scrivere. Macario, mio padre, non fu poeta tragico come Ferré, ma poeta della comicità filtrata attraverso una maschera surreale, naif, candida, innocente, funambolica, delicata. Era la mia quercia. Entrambi, in modi diversi, hanno guidato il mio senso del sogno.

Quest’anno per tutti è stato un anno complicato. Le restrizioni decise dal governo hanno diviso. Quale parere vuoi esprimere da artista, da intellettuale, circa il momento e le decisioni governative?

La pandemia non è un gioco. Le vittime sono un numero spaventoso, il mondo è percorso da questo killer. Le misure del governo sono giuste, ancora permissive rispetto al problema planetario. Il governo doveva forse essere più tempestivo.

E cosa ne pensi, andando più nel particolare, circa la decisione di chiudere cinema, teatri ecc. ? È sbagliato pensare che agli occhi del nostro governo si può fare a meno della cultura?

Qui non c’entra la cultura, c’entra la pelle. Di tutti noi.

“Memorie autartiche” – Mauro Macario
(Il destino di essere altrove, edizione Campanotto, 2003)

Le gonne larghe ai balconi
e il naso all’insù
adolescente esaltato
alla nera eclisse
che svanendo mi accecava
d’intravisti biancori
piccole vele rigonfie
sospinte da impulsi contratti
in quel cielo di sotto
che non ha Trinità
perché l’occhio di un terzo
è sempre indiscreto
a lungo inspiravo
un sentore immaginato
di pitosforo marino
e alga salata
fin quando mi veniva sete
alle mani sudate

cucciolo brado in terra di Onan
brucavo gli aspri germogli
di arborescenze corporee
spogliate in collina
fibrillando allo spasimo
su dossi implumi
a improvvisa discesa
infossata

roteare in dispnea
sollevato dal suolo
risucchiato nelle forme
da allora adorando
la Sindone dello spacco
umido al centro
apparso ai miei occhi
come buona novella
da portare nel mondo
perché tutti i sensi
e anche i controsensi
confluissero là
in continua rinascita
muschiosa
dove le labbra s’incontrano
entrambe dischiuse
alla conoscenza del lambire
suggendo premute
l’argine naturale
alla morte dell’essere

“Alphaville” – Mauro Macario
(Puntoacapo editrice)

L’amore è un malessere gioioso
un salice piangente che si piega
in un cuore lacustre
esulta in piena estasi
ma prevede l’alchimia che lo trasformerà in lacrime
l’uomo femminile non ha futuro
è una razza che nasce tramortita dal sogno
e affida all’altro il suo destino postumo
solo chi lo annienta può scriverne la fine
un’opera incompiuta che passa di mano
alla morte dell’autore
e nessuno si accorge che lo stile è diverso.

E’ una smania triste tra i sensi
perché a possederla tu la perdi ogni volta di più
perché da quel corpo non vorresti mai uscire
invece si stacca s’allontana si volge al futuro
perdendo per strada l’alfabeto di un comune sentire
una questione d’incontinenza davvero imbarazzante.

Quando l’abbandono è un tragico epilogo
sui vetri la pioggia m’intravede in attesa
di una forma immaginata più che vissuta
preme a dismisura la forza evocativa
e pur di averla ne assumo le sembianze.

“Silenzio a occidente” – Mauro Macario
(Sarzana, gennaio 2004)

Più non ci rincorre
il senso del sogno
perduto tra la polvere
o nel suo bozzolo gelato
dove una crisalide abortita
non volerà

dalle crepe di un’era glaciale
alle nuvole barricate
di una memoria luminosa
che lascia l’utopia infrangersi
sulla nostra disfatta dorata
e sono argini sfondati
su speranze immolate

di un messaggero che s’affanna
oltre le linee
tra fuochi ormai spenti
in corsa verso nessuno
verso paesaggi in rovina
e tribù scacciate
che mutano controvoglia lo sguardo
volgendo in rancore
l’antico rimpianto

stiamo cadendo
a uno a uno
nella terra promessa
che mai attraversammo
con gli aneliti filanti
sfuggiti da un pugno di neve
nel cielo di maggio
per immaginare un mondo
al di là degli uomini
disciolto quel pugno
e anche quel cielo
nel raggio verde inumati
ridiamo di tutto
e del sogno moriamo

quando non ci saremo più
cadremo ancora da età lontane
per la nostalgia del corpo giovane
e l’improvviso risveglio nel tempo murato
issando palamiti vuoti
al largo dei venti
esausti bagliori
di riflessi stellari
cenere adolescente
da spargere in mare

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