The Lighthouse di Robert Eggers: recensione

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The Lighthouse è la seconda opera di Robert Eggers dopo The Witch, interpretato da Willem Dafoe e Robert Pattinson, presentato alla 72° Edizione del Festival di Cannes. La data di uscita cinematografica in Italia è tuttora ignota.

And I had done a hellish thing,
And it would work ‘em woe:
For all averred, I had killed the bird
That made the breeze to blow.
Ah wretch! said they, the bird to slay,
That made the breeze to blow!

Distruggere la natura – innocente e inconsapevole entità altra da noi, esseri umani capaci di creare il nostro proprio mondo – è un’offesa a Dio. Ciò sosteneva l’ecologista anzitempo Samuel Taylor Coleridge, poeta inglese vissuto nell’Ottocento e noto per The Rime of The Ancient Mariner, lunga ballata che influenzò, poi, tutta la poesia romantica successiva. The Lighthouse deve però molto anche ad un maestro del cinema: l’autore de Il Settimo Sigillo, Ingmar Bergman.

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Il protagonista, l’antico marinaio, imbarcato in un viaggio transoceanico, còlto da improvvisa e cieca ira, compie un gesto atroce: innocente creatura, uccide l’albatross che accompagnava il viaggio della nave. La maledizione si tramuterà nella morte dei suoi compagni – per la vita dei quali dovrà giocare a dama con la Morte in persona, sul ponte della nave – e si ritroverà per un lungo tempo, infinito, nella calma equatoriale – il cadavere marcescente dell’albatross fuso al suo collo. Solo un gesto d’amore insperato sovvertirà il suo destino.

Non c’è speranza per la redenzione, invece, in The Lighthouse, opera seconda di Robert Eggers, già autore dell’horror The Witch, vincitore della miglior regia al Sundance Festival, che ci ha già regalato perle come A Ghost Story e molti altri, nel 2015. In un faro, appoggiato su una roccia in mezzo al mare, due uomini, il guardiano fisso Thomas Wake e il giovane Ephraim Winslow, hanno il compito della manutenzione della luce che salva le navi e i marinai.

Wake sembra uscito dalle pagine di Moby Dick: per quanto ci si trovi, presumibilmente, a metà ottocento, l’uomo continua ad utilizzare un linguaggio desueto, fatto di cantilene marinaresche – da capitano Acab, cui condivide la gamba zoppa – che, col passare dei giorni, irrita sempre più il mite Ephraim, stoico lavoratore nonostante il tempo grigio, la mancanza del sole, e le piogge continue.

Le angherie di Wake, che insiste nel non usare il nome proprio del ragazzo – ma riferendosi a lui solo come “lad” e “dog” –  e nelle maledizioni piratesche, tirando in mezzo tritoni e Nettuno, perennemente pregno di acquavite, corroboreranno la discesa nella pazzia di Ephraim: teste mozzate, apparizioni di  sirene, kraken, e, infine, la brutale uccisione di un gabbiano, daranno il via alla parabola infernale del personaggio di Robert Pattinson. Eppure, Thomas l’aveva avvertito: glielo aveva detto. No good is to kill a seabird, for they carry the dead mariners’ souls. Una grande tempesta inghiottirà il pezzo di roccia su cui poggia il faro, ed i suoi abitanti.

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Da creatura sottomessa, complice la sua sempre più labile sanità mentale, Ephraim diverrà sempre più violento e ossessionato dal faro. Cui Thomas non permette l’accesso. Atmosfere lovecraftiane – precisamente da racconti come L’Orrore di Dunwich – si respirano attorno al personaggio di Willem Dafoe, sottomesso servo degli dei del mare.

Su di loro, unico sole – artificiale, frutto di quella civiltà che si arroga il potere di vita e di morte sulla natura – dardeggia il faro, fonte di vita e di luce e di calore; molteplici sono, poi, durante tutto il film, i rimandi alla sessualità, che mai, però, sfocia in positività – e, soprattutto, nell’amore che è presente nel poema di Coleridge. In una delle scene iniziali, Ephraim trova, nascosta nel cotone della branda, una statuetta di avorio di una sirena, e ne risulta ossessionato, tanto da masturbarsi su di essa mentre lavora.

Il rapporto di Thomas, poi, con la lente del faro, è puramente fisico: si denuda alla sua luce, geme di fronte ad essa in puro godimento. Col passare del tempo, Wake si affeziona a Ephraim, che, d’altro canto, in un accesso di ubriachezza, gli confida un suo grande segreto; eppure, anche questo, è solo un inganno di un’anima dannata ad un’altra, che, come può, tenta di ferire l’altra. Nonostante siano solo in due in quel faro: il che ci porta ad un altro punto.

The Lighthouse è un film incredibilmente realistico.

Sia per le storie delle vite dei protagonisti – incredibilmente romanzate – che, a seconda della sbronza, cambiano versione sul proprio passato, dandosi vicendenvolmente del bugiardo – che per la costruzione dei dialoghi ed il lessico scelto: si teme che tali sfumature, a meno di un’attentissima ricerca, potranno essere perse in un eventuale doppiaggio. Winslow, canadese, si esprime in un inglese più o meno corretto, ed ha, inizialmetne, difficoltà a comprendere il linguaggio da pirata dei sette mari (probabilmente inventato) di Wake.

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Con l’intensificarsi della tempesta, ance le ossessioni di Winslow si intensificano, e, in tale frangente, Eggers si ritrova a citare proprio Bergman, nel suo film – poi sconfessato – Come in uno specchio, sia per la simile ambientazione che per la costruzione scenica. Perché Winslow e Wake potrebbero essere la stessa persona, l’uno la versione più vecchia dell’altro: ciascuno rivede nell’altro la propria ossessione, la propria follia, entrambi eludendo la lucidità ed il dovere. Sullo sfondo il mare, simbolo di una natura che non può essere domata, ineluttabile, infinito, inviolabile nei suoi abissali segreti. Laddove però nel film di Bergman Dio era presente, quasi un personaggio, qui il divino è impersonato dalla luce del faro, un sole silenzioso involontariamente adorato dai suoi indesiderati accoliti. Un sole artificiale.

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Il finale di The Lighthouse è coerente col film stesso: misterioso, insoluto, incompiuto. In un’intervista Eggars ha detto di essersi inspirato proprio ad un racconto incompiuto di Edgar Allan Poe: ecco, la violenza – sottile, vendicativa, delirante – che è presente nella scena finale racchiude meravigliosamente la poetica del grande scrittore americano, la cui vita e la cui morte furono avvolte in dolore e mistero.

The Lighthouse è, peraltro un film tecnicamente pregevole.

Girato in 1,19:1, praticamente un quadrato, possiede una grandissima carica espressiva sia per le attente inquadrature ai due protagonisti – la cui interpretazione risulta essere molto fisica, concreta, mai evanescente – che per le curate scenografiche, realistiche e minimali allo stesso tempo. L’alone di mistero che si riesce a creare attorno ad alcuni oggetti ordinari, come il registro del faro maniacalmente curato da Wake, o il cancello di ferro che separa la scalinata del faro – una spirale di Fibonacci – è assolutamente geniale.

Meno lo è, ed è, anzi, stilema un po’ abusato, come nel similare Shutter Island con Leonardo diCaprio, del lasciar confondere allucinazione e realtà. Ci si ritrova ad essere spettatori spesso confusi e dubbiosi, incapaci di empatizzare col vecchio finto lupo di mare o col taglialegna canadese: forse, però, lo scopo della sceneggiatura di Eggers è proprio quello di mostrare l’orrore che l’uomo può compiere, sia all’innocente natura sia ad un altro uomo.

Due – e vi sfido a trovarle – sono le possibilità di redenzione fornite a Winslow; due, ed entrambe sprecate con superficialità e tracotanza.

The Lighthouse, in conclusione, è un’opera spiazzante e caotica: ci auspichiamo, per gli Oscar 2020, che questo piccolo film, simbolo di come, con pochi soldi, si possa ancora fare arte, riesca a stringere almeno una statuetta.

O che un tentacolo si avviluppi attorno a quell’oro, viscido e sinuoso.

Giulia Della Pelle
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