“One team, one country”: Nelson Mandela e il “Rainbow Nation” in Invictus

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Il 5 dicembre del 2013 il mondo perdeva una delle figure umanitarie più grandi mai esistite, un esempio di purezza temperamentale raramente replicabile: l’ex presidente del Sudafrica Nelson Mandela

Nelson Mandela ricoprì la carica di Presidente dal 1994 al 1999, ma la sua vita non si esaurì attorno a quel ruolo; Mandela fu anche un fervente attivista a partire dal 1952, quando entrò a far parte della campagna di resistenza in seguito alla vittoria elettorale del Partito Nazionale, promotore del confino razziale. Purtroppo pagò a caro prezzo la sua condotta filantropica con ben ventisette anni di carcere. Le motivazioni ruotavano attorno all’accusa di tradimento, includendo anche il coinvolgimento in lotta armata che Mandela aveva appoggiato dopo gli eventi del massacro di Sharpeville – nel quale avevano perito settanta persone di un movimento di protesta contro la politica dell’apartheid del Partito Nazionale –.

Il periodo di reclusione fu estenuante per Nelson non solo per la sua lunga durata, ma anche tenendo conto del fatto che solo quattordici anni dopo l’incarcerazione furono aboliti i lavori forzati che lui aveva dovuto scontare, insieme agli altri detenuti, fino ad allora. La segregazione terminò nel 1990.               

Il film Invictus riprende proprio da questo punto della vita di Mandela. Diretto nel 2009 da Clint Eastwood, Invictus – dal latino “mai sconfitto” – è un inno all’unione, allo spirito di gruppo e alla fratellanza; tutte caratteristiche tutt’altro che tipiche del regime dell’apartheid, alla cui lotta Mandela dedicò l’intera vita. Questo titolo è da attribuire all’omonima poesia del poeta britannico William Ernest Henley, che l’ex presidente sudafricano leggeva quotidianamente durante la detenzione al fine di trovare conforto.

«Dal profondo della notte che mi avvolge,
Nera come un pozzo da un estremo all’altro,
Ringrazio qualunque dio ci sia
Per la mia anima invincibile.
Nella stretta morsa delle avversità
Non mi sono tirato indietro né ho gridato.
Sotto i colpi avversi della sorte
Il mio capo sanguina, ma non si china.
Oltre questo luogo di rabbia e lacrime
Incombe solo l’orrore della fine.
Eppure la minaccia degli anni
Mi trova, e mi troverà, senza paura.
Non importa quanto stretta sia la porta,
Quanto impietosa sia la vita,
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima.»    

Le vicende nel film seguono un arco cronologico interno agli anni ‘90 e prendono luogo in Sudafrica.

Il regime dell’apartheid è crollato e Nelson Mandela è nominato presidente del Sudafrica. La scena di apertura ricalca un evento cardine: la scarcerazione di quest’ultimo, evento che viene comunicato dai telegiornali. Ventisette anni di prigionia non sono stati sufficienti ad intaccare lo spirito altruistico di Mandela; la sua preoccupazione è quella di restituire la libertà che lui ha appena riacquistato anche al suo popolo, oltre alla volontà di riappacificare il paese diviso dall’astio tra bianchi e neri. Nel 1995, in occasione della Coppa del Mondo, il presidente punta sulla squadra degli Springboks per rinvigorire la speranza nel consolidamento dello spirito d’unione del paese con una possibile vittoria. Emerge da subito la sua personalità benefattrice, il suo atteggiamento spesso temperato e soprattutto lo spirito paterno che assume nei confronti degli Springboks – oltre che nei confronti dell’intera nazione sudafricana, che lui vede come una famiglia.

nelson mandela

“I have a very large family, 42 million.” Così Mandela decide di contattare il capitano della squadra, François Pienaar. Durante il loro incontro, il presidente domanda al giovane qual è il suo metodo di ispirare la squadra ad eccellere. La risposta è molto apprezzata da Mandela (“By example. I’ve always thought to lead by example, sir.”); secondo lui, prendere come esempio il lavoro degli altri può essere un metodo valido per ispirare sia sé stessi, sia chi ci circonda.
Si viene a creare da subito un’aria di concordia tra Mandela e Pienaar che, sebbene in modi diversi l’uno dall’altro, perseguono l’obiettivo comune di integrare bianchi e neri in un’ideale di comunità pacifica. François decide di adottare un nuovo inno nazionale per i componenti del suo team, nonostante il loro iniziale scetticismo; Mandela assegna ai giocatori l’incarico di allenarsi all’aperto confondendosi con altri giocatori, per insegnare lo sport del rugby anche alle persone di colore.          

Lo sport travalica i confini del semplice gioco di squadra per divenire uno strumento di unione sociale, un mezzo per giungere a quello che è il sogno del presidente: la Rainbow Nation, una “nazione arcobaleno” multirazziale e multiculturale.

Mandela è ambizioso più che mai in un’ottica lontana dalla competizione tipica dell’ambito sportivo; desidera ardentemente la vittoria per gli Springboks e nonostante qualche parere contrario cerchi di farlo desistere lui prosegue senza sosta.  Nel finale c’è un iniziale scorcio di sgomento quando gli addetti alla sicurezza avvistano un aereo eccessivamente vicino allo stadio dove sta per tenersi la partita tra Springboks e All Blacks, la celebre e fortissima squadra neozelandese. Si teme un attacco da parte di qualche nostalgico pro-apartheid, ma fortunatamente è un falso allarme: quando l’aereo arriva a non troppi metri di altezza dallo stadio, si legge chiaramente su di esso l’augurio “Good luck Bokke” ed il velivolo prosegue la sua rotta, con il sollievo di tutti i presenti. Passato questo momento preoccupante, la partita arriva al termine con la vittoria della nazionale sudafricana contro gli All Blacks. La tenacia di Mandela e quella di Pienaar si sono rivelate più forti di qualsiasi altro dubbio esteriore, in un ideale di armonia comunitaria del quale avremmo tutt’oggi disperatamente bisogno.

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